mercoledì 14 ottobre 2015

All'Expo.


Faccio anche fatica a parlarne. Mi dà noia. La giornata è stata piacevole perché ero in compagnia di gente piacevole. Assicuratevi di andarci con gente piacevole, con cui vi sentite liberi di commentare senza filtri ciò in cui sarete immersi per almeno otto ore. Un senso di panico sordo mi accompagnava dalla sera precedente. Andavo ad Expo perché, da contestatrice, dovevo andarci. Se no è troppo comodo, mi dico tuttora. Come puoi denigrare il nemico, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia? Expo è, ai miei occhi, la valletta del neo-liberismo aggressivo, quello che annulla i confini in nome della rapina di risorse e toglie il diritto di coltivare (in senso lato) alle persone che abitano un luogo.
Il timore cresce piano, quando, poche ore prima di andare a letto, inizio a leggere qua e là il florilegio di articoli-guida per evitare le code a Expo, su cui perfino tutti i massimi giornali si sono spesi. Tutti convengono sull'evitare il sabato (cioè il giorno in cui sarei andata) e di partire dal fondo, ovvero dalla parte opposta da cui si entra. Maturo l'idea di entrare dall'ingresso di Cascina Merlata, arrivando in bici, evitando la folla della metrò e di assicurarmi un piano di fuga liberatorio per l'uscita. Invece poi verso sera comincio a pensare al percorso lunghissimo e sconosciuto, all'opzione di caricare la bici in metrò ma all'insostenibilità della folla di passeggeri; la notte faccio sogni sull'interminabilità delle cose e addirittura mi sveglio alle tre incapace di riaddormentarmi fino a forse le sei. Il mattino seguente non mi sveglio di buon'ora, rinuncio del tutto alla bici e salgo in una metropolitana che si affolla via via, mi manca il respiro, mi gira la testa e quando scendo mi devo appoggiare ad un muro e lasciare scorrere l'incredibile fiumana. Trovo i miei amici poco più tardi e insieme ci mettiamo in coda. Sotto al palazzone della wind, verso il controllo dei metal detector, siamo molecole di un corpo enorme che si muove per circa quaranta minuti, superando scale e ponti che solcano autostrade e stazioni, finché siamo dentro. Diamo uno sguardo all'ingresso successivo, sotto di noi. Scatto questa foto:

                        

Per me è l'Apocalisse, o qualcosa di grande e brutto sta per accadere. All'uscita, poi, ore dopo, mentre cammino dietro ad altri zainetti e bambini semi-disarticolati, proverò un mordente senso di affetto e compassione per questi esseri umani che hanno rinunciato a una quarantina di euro (io ne ho spesi dieci) del loro patrimonio, si sono incamminati da chissà quale parte d'Italia, si sono attrezzati con la loro merendina e il necessario e sono venuti a questo Giubileo del Capitale, a dire la loro preghiera, a vedere la grandezza.
Expo è un manipolo di brutti padiglioni stagliati lungo l'unica cosa che era pronta sei mesi prima dell'inaugurazione: la teoria di vele metalliche del cardo e del decumano. L'albero della vita ci appare da dietro una sterpaglia di transenne e auto parcheggiate, con le sue radici che traggono nutrimento dal cemento, e dalla via d'acqua sottratta al Parco di Trenno. L'albero della vita è una sanguisuga sgraziata e neanche tanto grande. Tutti quelli che ci raccomandano di vedere l'albero della vita ci sembrano dei disperati che cercano di autoconvincersi di qualcosa.
Cerchiamo di battere sul tempo gli altri visitatori e ci fiondiamo dall'altra parte del parco esposizioni con il people mover, meglio conosciuto nelle contrade della gente comune come navetta. Ma forse l'idea che una scatola metallica con quattro ruote trasporti persone è una delle migliori innovazioni in mostra.
Il padiglione Italia è preso d'assalto, una coda di almeno due chilometri slingua fuori dall'intrico di simil-elastici bianchi.
Tutto qui è simil-qualcosa.
Dopo appena quaranta minuti di coda al padiglione Austria, entriamo scarpinando su trenta metri di sentiero in una riproduzione di microclima “austriaco”, nella massificazione da crociera, dove l'Ecuador sono le Galapagos e l'Austria le sue montagne. Troviamo anche Heidi, che si è fatta fotografare insieme a questi visitatori.

                          

Beh, chiaramente il tempo passa per tutti, e anche i generatori d'ossigeno allestiti qui, e l'invito a respirare, non hanno potuto fare un granché.
Alcune meduse di plastica colorate col pennarello si gonfiano e si alzano con la pressione dell'aria azionata da un bottone. Cosa ci fanno le meduse in Austria, faccio appena in tempo a chiedermi.
Poi ad estinguere ogni questione c'è il bar con i dolci (e io che cominciavo a sentirmi come in alta montagna). Ne prendiamo tre: una sacher, uno strudel e un non meglio specificato “dolce tipico”.
Poi passiamo all'Ecuador. Ancora quaranta minuti di coda sotto gli occhi austeri dei visitatori affacciati sulla terrazza del padiglione Usa, e gli ordini del guardiano che di tanto in tanto ci urla, fra i suoi unici due denti inferiori, di andare avanti e riempire gli spazi vuoti. Posso capire che sia una sua ossessione. Oggi sono piena di compassione, dev'essere l'idea di nutrire il pianeta. In Ecuador ci accolgono parlandoci, e questo mi piace. Ci accompagnano a sfogliare questo depliant virtuale fatto di odori e video e immagini che scorrono.
           

In Ecuador si sta benissimo: ci sono gli animali più belli del mondo, si va sott'acqua e si studia per realizzare i sogni, tutti pensano al futuro e c'è solo natura. Anche l'agricoltura non è estensiva, ma alternativa. E male che vada c'è il cioccolato più buono del mondo.


Poi decidiamo di andare in Turkmenistan, che avevamo sentito essere figo, in realtà ci saremmo resi conto presto di averlo confuso con l'Azerbaijan. In compenso abbiamo scoperto che anche in Turkmenistan si usa il detersivo, ci si disinfetta con le garze e che gli allestitori hanno svuotato i loro musei ottomani per abbellire un po', ché i fiori finti non facevano bene il loro dovere e non si riusciva più a spolverarli bene.



L'immancabile vanto del mattone accumulato all'inverosimile, nello stile tipico orientale.

Decidiamo allora di andare dai ricchi qatarioti, affascinanti nelle loro stole bianche. Questa coda è un prova di amore e fiducia: due ore di resistenza in arzigogolata processione. Una tavola imbandita splendidamente, una valletta – che sembra Raffaella Bragazzi di Ok il prezzo è giusto – che spiega rapidamente la cucina qatariota e subito dopo ingiunge di togliersi dalle palle, che deve ripetere tutto per il prossimo scaglione di visitatori. Eh ma, abbiamo aspettato due ore.. Cazzi tuoi, dice lei, nel dialetto di quelle regioni rese floride dalla tecnologia, che sorridono fra le rughe delle guance degli schiavi che lavorano nelle serre in mezzo al deserto. In questo posto meraviglioso gli sceicchi si preoccupano di questioni delicate come la cittadinanza globale e fondano addirittura un think-tank allo scopo di risollevare il mondo dalla fame.




Poco oltre, in una specie di caravanserraglio rivisitato, alcuni esseri umani sono in mostra come nella migliore tradizione delle esposizioni universali. Da antropologa non posso non fotografare. Da due prospettive: da evoluzionista (foto1) e da post-modernista (foto2).

foto 1


foto 2


Fotografare la gente che fotografa mi piace molto, scopro dopo. Mi piace immortalare ciò che piace alla gente immortalare. Ad esempio, corro divertita e incuriosita verso questo porcilaio in mezzo al decumano, poi mi accorgo con immensa delusione che sono porci finti, di plastica. Mi risollevo quando vedo persone che fotografano questi porci finti.

                          


Penso con tristezza alle fiere del bestiame a cui mi portavano mamma e papà da piccina. A tutto quel buon odore di buascia e di animale e a quei versi, quei corpi caldi e alieni. Qui è finto anche il maiale, e nutro qualche dubbio sul prosciutto del toast che ho appena mangiato. Sono finte anche le cose architettoniche, sono fatte per finta, non sono costruite veramente. Perché il mega cesto che fa da cappello al padiglione Qatar non è di vera paglia? Ero curiosa di vedere, anche solo da fuori, il padiglione Messico, perché fatto come un involucro dischiuso di una pannocchia di mais. Una volta al suo cospetto, però, mi è sembrato così povero, poco pretenzioso; e che diamine, siamo ad un'esposizione universale, dopotutto! Finti erano anche questi cosi lungo il decumano, finto il pane e le verdure.


La banalità è in fiera. Un orto viene messo in mostra. Ma è tale il distacco dell'Uomo dalla Terra?
Colpevole da parte mia di essere venuta di sabato, di non aver potuto visitare tutto, leggere i pannelli, parlare con gli addetti..sono andata via con la forte perplessità sul vero tema della fiera. Il livello sembrava quello che si può trovare in qualunque agenzia di viaggi. L'elenco degli sponsor sembra troppo simile a quello che si consulta quando si aderisce ad un boicottaggio. Ma davvero mi devo rivolgere a Coca-Cola, che affama i contadini e si mangia lo stato di diritto dei paesi in cui produce, per avere un parere su come risolvere la fame nel mondo?
Che l'aria in tal senso puzzasse un bel po' mi è stato confermato dall'eccezionale incontro con l'azienda di piadine ambulante per cui in giovinezza avevo lavorato, che in Expo gestiva l'importante padiglione di una famosa bevanda ambrata. Me ne andai da loro perché mi facevano lavorare anche tredici ore di seguito e a fronte delle mie proteste consigliavano antibiotici. Le piastre erano lavate con candeggina e risciacquate dalle prime trenta piadine del giorno successivo.
Viva il cibo di strada, nobilitato per l'occasione perché questo ci spetta mangiare, a noi povere molecole di questo gregge che se ne va a casa, con gli occhi ciondolanti sui sedili della metrò.

lunedì 17 marzo 2014

Tornare da Istanbul


I ritorni sono traumatici. Tutte le volte che sono tornata dall'unica città estera in cui abbia abitato, lo sconvolgimento del ritorno era temibile. Così temibile che l'idea che si realizzasse mi aveva fatto tremare prima di quest'ultima partenza, e sciolto in lacrime all'aeroporto.
La prima volta che sono tornata non ricordavo più i nomi delle strade della mia città, i percorsi degli autobus e i nomi delle persone. Un giorno avevo incontrato per la strada una conoscente, ci avevo parlato per dieci minuti buoni credendo che fosse ( non che si chiamasse) Paola e invece era Valeria.
La seconda volta non riuscivo più a parlare la mia lingua, non sapevo che musica ascoltare e di che cosa parlare con le persone con cui avevo parlato fino ad allora.
Sì, assomiglia ad un'afasia, ad un morbo di Alzheimer, ad una dislessia.
In realtà erano gli effetti di un mondo che ti circonda, che all'improvviso, con un colpo d'ala d'aereo, scompare. Come un silenzio alla fine di una festa chiassosa.
Forse anche dietro a quelle malattie, a quei disordini, c'è un trauma, di cui non si sa parlare, o si ritiene non ne valga la pena.
Assomiglia molto a quello che cercavo qui, il trauma, lo spaesamento, il perdersi a seguito di una trasfigurazione di paesaggio. Scorre in parallelo.
In effetti non ho mai scritto niente di come mi sentivo quando tornavo. Forse perché era difficile, forse perché per esempio adesso non ho intorno il mio café con le discussioni ad alta voce, con il rumore così denso che ti protegge e che puoi ritagliarci una poltrona d'intimità dentro e sederti e scrivere. All'improvviso non c'è più, e io non posso scrivere.
La stessa cosa succede con la vita, con l'abitare. Cu abbita abbita e cu nun abbita mmore.
Per due anni milanesi ho abitato in un posto che non mi faceva stare bene. Era brutto. Scomodo. Dannoso.
Se mi guardo indietro, in quei due anni ho vissuto come nella condizione che appare talvolta nei miei incubi: andare al lavoro in accappatoio, oppure non potersi lavare e dover andare ad un incontro importante. In quei due anni l'incontro importante era la vita di tutti i giorni, e la sensazione di non potersi lavare era la condizione di non potersi adagiare mai, di non avere mai un rifugio.
Conosco una persona che ha vissuto per molto tempo ad Istanbul così. Non riusciva ad uscire di casa, pur abitando in una zona molto centrale e piena di stimoli. Ma si sentiva atterrita dalla selva urbana e i suoi pericoli. Ora si è trasferita sul Mar Egeo, a undici ore di autobus verso sud, in un villaggio per turisti. Ha dei vicini che hanno fatto come lei, giovani pensionati in fuga. Sono i suoi nuovi vicini, con i quali si suonano alla porta per scambiarsi torte e far assaggiare manicaretti. “Il nostro villaggio è tutto qui.” (“Bizim köyümüz bu kadar.”). Mi fa sorridere questo accenno ad una presunta vita di villaggio, soprattutto se confronto la grande fattoria poco più in basso, seguendo la strada, che si trova su una curva e il mare lambisce qualche metro di terra prima dell'ingresso. Loro mungono le loro capre ogni mattina da decenni, e si organizzano ogni fine estate per la raccolta delle olive. I villeggianti trasformati in villagers, invece, fanno la spesa di fattoria in fattoria con i soldi della pensione che arriva dal centro.
Questa volta sono tornata ma lo spaesamento non è stato così forte. Mi ricordavo i nomi di quasi tutte le strade, avevo solo una leggera depressione come da ritorno dalle vacanze.
Sono uscita la sera stessa, e nei giorni seguenti, bevendo, fumando, lavorando, studiando. Potente come una nave col vento in poppa. Poi il collasso, l'immobilità. Mi sono accorta che non pensavo più a Istanbul, se non agli aspetti più da banchetto, gioviali, goderecci, balotta, baldoria, g.. confraternite...GOLIARDICI! Ecco, non mi veniva la parola. Non rispondevo al telefono che squillava da Istanbul. Oggi l'ho preso in mano, ho riparlato quella lingua, l'ho riascoltata. Ho appreso delle costruzioni iniziate a Fikirtepe. Ho riaperto i giornali turchi. Ho scritto a tutti gli amici e conoscenti che volevo sentire o invitare a cena. Adesso mi faccio una partita a solitario e poi mi addormento piano piano.




martedì 14 gennaio 2014

Le parole che rimangono in gola (Boğaz)


Non mi importa di parlare di niente. Non mi piace come scrivo, la scrittura cambia la realtà, non voglio fare l'antropologa né la giornalista nella vita. E in questo c'entra anche Yasin, che mi chiede di fargli vedere le note che prenderò dopo la nostra conversazione. E mi chiede che idea mi sono fatta di Fikirtepe, e mi annuncia che mi farà un'intervista “per conoscere il punto di vista di una straniera su Fikirtepe”, a me che ogni parola di questo annuncio mi dà ai nervi. “Conoscere” è una grande parola, da una conversazione con una studentessa di antropologia un po' sprovveduta non vedo che tipo di conoscenza possa discendere. “Fikirtepe” è un argomento? Si può avere un “punto di vista” su Fikirtepe? E perché il punto di vista di “una straniera” dovrebbe avere un'importanza in senso assoluto? Dalla mia fatica di vedere Fikirtepe come argomento, segue la mia difficoltà a farmi un punto di vista. In visita a dei famigliari della mia coinquilina, quest'ultima spiega che sto facendo una ricerca sul kentsel dönüşüm etc. E la zia, in modo del tutto spontaneo: –E che cosa hai scoperto?–
Sono rimasta bloccata e ho sparato la prima cosa che mi è venuta in mente. Non che non fosse vera, ma non era nulla in assoluto. Non era Fikirtepe in toto. Il fatto è che guardando sempre più da vicino qualcosa, come sempre è difficile vederne l'insieme. Provate ad immaginare di dover rispondere a una domanda del tipo “ Cosa pensi di Sesto San Giovanni?”
Chiaramente nella domanda di Yasin, giornalista amatoriale che ha la redazione del suo quotidiano on line su Fikirtepe sul banco del suo negozio di ferramenta, non c'era l'intenzione di sapere se trovo Fikirtepe bella o brutta, chiaramente si riferiva allo sviluppo del quartiere come un problema, e la mia impressione su di esso.
Che cos'è successo? Ha ristretto il campo, ha chiuso la visuale, ma non ha semplificato la composizione dell'immagine, non ha semplificato la domanda. Io non so rispondere. E se non so rispondere ho fallito. Ma nemmeno voglio. Eppure era quello che mi prefiggevo di fare. “Gli antropologi devono parlare alla gente” mi dicevo. Devono aiutare ad aprire gli occhi alle persone, renderli consci del cambiamento antropologico in atto, dare loro gli strumenti per farsi un'idea, per pensarlo.


Sono andata a Poyrazköy, per vedere la costruzione del terzo ponte sul Bosforo e la trasformazione del paesaggio che ne consegue. Ho preso un autobus da Ümraniye, due rioni più in là rispetto a dove abito. Ci sono rimasta sopra un'ora esatta. Avevo aspettato l'autobus per mezz'ora, accanto a una ragazza che insieme a sua madre andava a Kavacık, da dove dovevo salire su un altro autobus fino a Poyrazköy. Si ferma l'autobus con il numero che aspettavamo ma l'autista ci dice che abbiamo sbagliato lato, di aspettare sul marciapiede opposto. Un'altra mezz'ora. Dopo aver percorso lungamente Çavuşbaşı yolu, in un'Istanbul ancora rurale e lontana, l'autobus arriva a Kavacık. Scendiamo e noi tre donne ridiamo, pur senza conoscerci. Ma quanto era lungo?! E adesso dove va? A Poyrazköy. E lei? Anche noi! A trovare una zia. E lei da chi va? Da nessuno, solo per fare un giro. Smettono di sorridermi. Non mi parlano più. Che cosa ci va a fare una ragazza da sola a Poyrazköy? Un'altra ora di bus. Di cui un quarto d'ora sulla costa, a Beykoz; un quarto d'ora fra colli coperti di boschi, qualche casa isolata e piloni della corrente. Un'altra mezz'ora nella foresta incontaminata e verdissima, colli e valli e un'unica strada. In cima ad un'ultima incredibile discesa-salita, appare una striscia rasata dalle ruspe, piloni dell'autostrada in costruzione, e a lato, il villaggio Poyraz, sopra e sotto, fino alla spiaggia.
Inequivocabili, nel cuore del panorama, i piloni del ponte in costruzione, di qua e di là del Bosforo. Le navi quando passano in mezzo fanno “Pooooo”. Salutano qualcosa che ancora non c'è. Però c'è. Faccio mille riprese a questo paesaggio incredibile. Non ho voglia di parlare con le persone, di cercare di capire. Capire cosa? Come cambia il mondo con il terzo ponte?
Solo al termine di una camminata gelida dal monte fino alla marina, fra mucche e galline, risalgo ed esco sulla rocca, guardo verso il mare. Alla sinistra ho il Bosforo, davanti il Mar Nero, costa buia e ventosa. Rimango ad inumidirmi i capelli all'incrocio dei mari. Poi mi rifugio in un caffè, sorpassando un matto con la faccia tutta rossa, un ghigno e gli occhi spalancati che urla – No, non uscire, non chiudere la porta, è pericoloso!–
Allora mi accorgo che hanno tutti l'accento del Mar Nero, e mi sento altrove. Mi chiedono da dove vengo. Rispondo: –Da Istanbul.–
Ridono. –Anche qui è Istanbul.–
Mi chiedono una lira per il té; protesto; mi fanno pagare 75 kuruş. Costava 50.
Vado all'autobus. Diamine, è appena passato. Il prossimo è fra un'ora. Ho fame. C'è un negozietto lì vicino. Il negoziante ha voglia di parlare. Io no. Gli chiedo pigramente se è contento del terzo ponte. Lui dice sbottando: ­–E che si vincono le guerre senza ponti e senza strade?! Un paese per vivere deve sacrificare le foreste.– Ha due stampelle e insiste per raccontarmi delle sue avventure amorose quando ha lavorato in Germania negli anni Sessanta. Preferisco il freddo e i cani randagi alla fermata. Finalmente arriva l'autobus. Di nuovo un tuffo nel verde scuro. Poi la città.

Il Mar Nero è alle mie spalle, guardo verso l'interno del Bosforo

martedì 7 gennaio 2014

Tra parentesi, che, per inciso che è davvero inciso, tra parentesi non è. Illusioni ottiche in etnografia.


Oggi sveglia alle cinque, per essere alle sette alla fermata dei taxi di Fetih Mahallesi, dove mi aspettava S. per prendere insieme il taxi che lo avrebbe portato al lavoro. Avevo pensato che fare un'intervista in taxi avrebbe reso l'idea della distanza, del cambiamento delle abitudini di una persona dopo la demolizione della sua casa e del suo posto di lavoro. Per paura di non riuscire ad arrivare in tempo parto con troppo anticipo e arrivo mezz'ora prima dell'appuntamento. È completamente buio. Faccio qualche ripresa della stazione dei taxi. Mi avvicino. Dico che aspetto un amico e mi siedo su una panchina all'aperto. Parlo con i tassisti, che mi invitano ad entrare nella stanzetta in cui si danno il cambio e bevono tè. Insistono perché non vogliono che prenda freddo. Mi dicono: –Guarda che da noi è buono il tè!–
Sono curiosi di sapere che cosa ci faccio lì con una macchina fotografica alle 6:30 del mattino. Uno di loro mi chiede se sono giornalista o simili –“gatezeci, mazeteci”– io mi limito a dire che faccio una ricerca all'università sul kentsel dönüşüm. Lui fa: – Ooo! –
Poi quando arriva S. mi dicono: –Ah, a lui dovevi fare l'intervista!!– lo conoscono bene, dato che sono nove mesi che fa avanti e indietro tutti i giorni in taxi, domenica compresa.
S. è molto fiducioso, soddisfatto e grato. Certo c'è l'ombra del dispiacere per la distruzione di una comunità di vicinato, della libertà di chi possiede la casa in cui abita. Ma veramente non sembra sconvolto dalla trasfigurazione del suo paesaggio personale.
Che faccio? La mia tesi non viene confermata, perlomeno nel semplice incontro verbale. Se faccio un filmato di S. che va in taxi al lavoro, è chiaro che voglio mostrare quanto si è fatta difficile per lui la vita. Ma se lui sembra contento? Ok, faccio vedere che è contento, che dice bene del progetto di sviluppo del suo quartiere. Ma lo stravolgimento del suo paesaggio personale, che gli consentiva di abitare il mondo e non perdersi, non viene rilevato, non l'ho rilevato, non esiste. O forse esiste ma non è così che viene fuori. Franco La Cecla, nel suo libro “Perdersi” arguisce che l'attitudine dell'abitare un luogo, e quindi anche il suo opposto, il perdersi, appunto, appartenga alla sfera dell'inconscio (non posso riprendere esattamente il testo perché l'ho dimenticato sull'autobus – ho perso “Perdersi”) e che di conseguenza non può essere spiegata, quindi indagata con i normali strumenti di ricerca. Per questo avevo pensato che il filmico avrebbe potuto rivelare qualcosa che sfuggiva. Ma come?


La mia preoccupazione non è solo di tipo “detectiva”, ma anche militante: il mio scopo è fare rendere conto dei pericoli, per la qualità della vita degli esseri umani, legati a questo processo di normalizzazione delle forme dell'abitare. Lo voglio fare osservando da vicino cosa una comunità si trova a vivere quando viene interessata da un progetto di sviluppo di tali dimensioni.
Allora le ragioni della mera ricerca etnografica e quelle politiche si sovrappongono. Ma sono davvero distinte? Cos'è un'etnografia? È la storia del mio rapporto con un luogo, per il tempo che mi prefiggo di studiarlo. É la storia della mia visione del mondo applicata ad un luogo. È la storia del mio abituarmi a quel luogo, del mio fare habit, del mio iniziare ad abitarlo. Non sono sicura che esista, nella ricerca, qualcosa di diverso. La realtà etnografica è questo. Se voglio qualcosa di diverso devo smettere di fare l'etnografa e cercarmi un lavoro a Fikirtepe, cercare di farmi degli amici, etc.
Allora la mia preoccupazione circa il riuscire o meno a mostrare la realtà etnografica con questo viaggio in taxi viene meno, ed è tutta una questione di onestà intellettuale non dare a pensare, magari con il montaggio, che le cose stiano diversamente.
La sera ho incontrato gli attivisti di Pangea Ekoloji, in particolare una ragazza, Eda (nome fittizio), che si è dimostrata molto disponibile e interessata al mio argomento di ricerca.
Le ho detto che mi stupisco continuamente del fatto che le persone con cui parlo siano mediamente contente delle conseguenze del progetto di sviluppo, perché anche se un po' sballottate, alla fine ricevono uno o più appartamenti di lusso. Lei mi guarda con espressione di sfiducia e dice: – Sì, ma non lo sai che non è proprio così, che col piffero ricevono la casa.–
Io rispondo che anche a me sembra fin troppo bello per essere vero, però dalle testimonianze raccolte finora sembra proprio così. Ho parlato con abitanti, con le compagnie edilizie e con un'associazione di cittadini, benché appaia un po' di parte, un soggetto ambiguo che forse riceve dei benefici dal suo assumere il ruolo di “rappresentante dei cittadini”, facendo gli occhi dolci alle compagnie di costruzione, assicurando che non ci sono problemi e sono tutti felici.
Eda mi parla come se io poverina fossi persa senza contatti. In realtà i contatti che mi mancano sono quelli “contro”, i detrattori del progetto di sviluppo del quartiere e le loro motivazioni. Uno dei motivi per cui avevo deciso di interessarmi a Fikirtepe è che sapevo dell'entusiasmo dei suoi abitanti, quindi questa mancanza di contestazione è stata un po' una conferma. Eda era lì a garanzia del fatto che un fronte “contro” esiste, e siamo d'accordo che presto ne sarò anch'io a conoscenza. Quella è la sua visione di Fikirtepe, che esclude i consenzienti, le compagnie edilizie, gli operai dei cantieri e i sogni degli abitanti di una casa più moderna. La vera Fikirtepe per lei è quella che lotta, e io, che di questa sua Fikirtepe non so niente, sono “persa senza contatti” e non so ancora nulla su Fikirtepe.
Inizialmente avevo contattato Eda per effettivamente allargare i miei contatti. Vale a dire Eda sarebbe stata fuori dalla mia ricerca o avrebbe occupato la posizione che occupo io, quella di chi osserva. Invece questo suo atteggiamento la rende immediatamente interessante anche in un altro modo, perché essa stessa è promotrice di una pratica sul luogo, quella di investire il luogo della propria ideologia (comunismo militante, Gezi Parkı). Tra parentesi anche se tra parentesi non è, questo contraddice la mia impressione iniziale circa il disinteresse degli abitanti del centro che hanno partecipato alle rivolte di maggio per quello che succede nella periferia. Eda dice: –A Tarlabaşı non abbiamo potuto organizzare granché perché quelli sono tutti nomadi, non sono attaccati al luogo, per loro non fa differenza abitare qui o là.–
Nomino Sulukule, ma non si sofferma molto. Ma c'è anche la fretta che sta per cominciare la riunione degli attivisti. Ne riparleremo presto.



sabato 4 gennaio 2014

Abitanti

Il link al mio post su Lama, blog del laboratorio di Antropologia Visuale di Milano Bicocca, con appunti visuali delle interviste agli abitanti di Fikirtepe.
lamaetnografia.blogspot.com

giovedì 2 gennaio 2014

Tristezza e confini


Sono triste tutto il giorno. Da ieri sera. Vorrei raccontare ogni episodio della mia vita qui per rendere l'idea di quanto schizofrenica è la mia esperienza di straniera. Ad esempio, non avendo un “posto fisso” dove mangiare, per andare sul sicuro senza pensare troppo alla qualità e al prezzo, mi aggiro per le strade di Kadıköy come se la preda fossi io, mentre in realtà sono io che voglio la carne, e precisamente avvolta in un dürüm di yufka ben tostata, e possibilmente senza immasticabili petti di pollo interi dentro e senza troppe patatine fritte dentro.
Ho l'impressione che se mi fermassi a ponderare qualcuno parlerebbe di me. Direbbe: –Guarda, quella, che si è fermata. Ma cosa fa?–
Settimana scorsa le mie orecchie hanno assistito ad una tenera scenetta di imbarazzo sul dolmuş. Giovani genitori, probabilmente provenienti da una piccola cittadina dell'Anatolia, con un bebé tutto bello imbacuccato e un paio di borsoni. Devono scendere in prossimità di una moschea, ma non sanno bene dove si trova. La loro apprensione cresce mano a mano che il paesaggio scorre dal finestrino. Lui vuole fingersi sicuro e dice: –No, è più avanti..–
Ma mentre il pulmino procede, si incrina la sua fiducia e lei comincia a proporre di chiedere all'autista. E lui: –Ma no. Ma cosa vuoi chiedere?–
–“Signor autista ci fa scendere vicino alla moschea X?” Fanno così, ho sentito io!–
–Ma no, dai, lascia stare. Arriviamo fino a giù, al capolinea, e poi risaliamo a piedi.–
­–Immagino a questo punto (erano dietro di me) che lei abbia guardato bebé e borsoni e abbia preso la decisione: – Chiedo?– e lui arrendendosi: – Chiedi.–
La sensazione che qualcuno possa parlare male di te è uno spettro sempre all'erta. Un altro aneddoto che mi viene in mente è sempre sul dolmuş. Forse che attraverso di esso passi la convalida per la tenuta da vero cittadino? Spero che in italiano si capisca la mia ironia. Una ragazza sui vent'anni, molto timida, velata, aspetto freschissimo di fiorellino, dopo circa dieci minuti di tentati sorrisi mi si china vicino e mi dice a bassissima voce:
–E' la prima volta che prendo questo dolmuş, mi scusi! Ma si ferma al Capitol?– e ride di imbarazzo.
Io penso: “Ma certo cara ragazza, non è richiesto che tu conosca tutti gli itinerari di tutti i dolmuş di questa città enorme”.
Essere di Istanbul è certamente un valore aggiunto, per coloro che lo sono veramente. Chi non lo è, può sempre tentare la strada dell'extra-affermazione. Essa consiste nel ripetere almeno dieci volte “sono proprio di Istanbul” nei primi dieci minuti che ci si presenta con qualcuno. Per una mia amica non ci sono dubbi: i suoi genitori sono di Kayseri, una provincia lontana almeno dieci ore da Istanbul, ma lei essendo nata qui è una vera Istanbuliota. E dato che abita anche lei nella mia municipalità, ma mentre io sono nel centro, lei è distante quattro o cinque chilomentri, mi sono trovata in questo discorso, che inizia da lei: –Ah, ma tu abiti in centro!–
–Sì, ma per fortuna sono un po' in disparte, altrimenti impazzirei con quella folla da mercato.–
–Ah, ma costano tanto le case, là!–
–Guarda, io sarò fortunata, ma pago solo trecento lire al mese.–
La sua faccia era quella di chi è invidiosa della centrale posizione altrui, e cerca di sminuirla, la mia reazione era di appeasement, dato che non considero per nulla centrale quel ammasso di negozi tutti uguali, dove la gente scorre e corre, cercando di non morire attraversando la strada con le automobili che accelerano quando vedono un pedone. Dunque contribuivo allo sminuimento, che per lei si concentrava sul mio essere centrale, ribaltando la logica quando si trattava di esaltare la sua centralità. Mentre decentrava me, accentrava se stessa.
Questo atteggiamento è opposto a quello che avevo finora conosciuto che fa leva sui rapporti di hemşehrilik, di provenienza dalla stessa città, memleket. Due sconosciuti di Sivas improvvisamente scoprono la loro hemşehrilik ed esibiscono un'intesa da amici di vecchia data. Che probabilmente è reale, poiché ci si riconosce in un paesaggio di pratiche e di tonalità inesplicabile ma effettivo. La città immaginata ha un confine preciso e grazie a questo può essere evocata. A Istanbul i confini scompaiono e siamo tutti cittadini, benché si dice che Istanbul rappresenti la Turchia intera. Secondo Cihan Tuğal, parlando del quartiere di Sultanbeyli (in “The Urban Dynamism of Islamic Hegemony: Absorbing Squatter Creativity in Istanbul”) ci sarebbe una connotazione politica nel riconoscersi o meno nei rapporti di hemşehrilik o nella grande cittadinanza metropolitana: gli appartenenti al centro-sinistra, benché fondino le loro relazioni sui rapporti di hemşehrilik, li misconoscerebbero pubblicamente, reputando retrogrado, tribale e akpeista l'atteggiamento di chi invece valorizza questo tipo di appartenenza. Cita un abitante di Sultanbeyli:

Friends, we have left our cities and villages and we have come to Istanbul. In Istanbul we have formed a lifestyle, but this lifestyle is definitely not from Kars, or from any other city. We have to live here as residents of Sultanbeyli, and we have to forget our hometowns.

Non bisogna per forza condividere questa osservazione di Tuğal, io non lo faccio, ma rimane comunque interessante.
Se adesso torniamo a me depressa per non sentirmi a casa durante le feste, che mi aggiro come un lupacchiotto affamato fra rotoli di carne di montone, che non mi fermo perché ho paura che escano fuori e i dicano “buyurun hoş geldiniz”, costringendomi alla fuga (perché io non entro solo perché me lo dici tu!), ma finalmente ricordo un posto dove mi sono sentita a mio agio e ho mangiato bene, e mi ci avvio con moderata decisione, ma appena vi entro, chiedo un et dürüm e il komi mi guarda con un espressione a metà fra un incredibilmente intenso divertimento e curiosità, ma anche canzonatura e mancanza di rispetto, fissandomi oltranzosamente negli occhi e infine proponendomi qualcosa che non mi aspetto, che quindi al momento non capisco, ma poiché sono straniera pensano che non abbia capito niente del tutto e mi traducono in malinglese: –Handired, handired! Yapim mi handired ghıram?– (c'era una versione şişko del dürüm più carica di carne, cento grammi) e se a questo punto mi getto nella più completa sconsolatezza, voi capirete, a questo punto, anche se ho volutamente messo su una frase alla Orhan Pamuk.
Mi siedo tristemente in uno scantinato piatto, e quando arriva l'ayran e il komi di prima mi chiede se voglio la cannuccia e io dico: –Sì– come se fosse “Certo che sì, non me la vuoi dare solo perché sono straniera?”, e poi inizio a bere senza, me ne rendo conto e inizio ad usarla solo per mostrare coerenza, capisco fino a che punto è arrivata la mia schizofrenia.
Uscita da lì, almeno so dove andare a bere il té. Al centro culturale Nazim Hikmet, dai comunisti! Mi sono appena infilata nella stradina e noto una chiesetta, che in tutti gli anni che vengo qui a rifugiarmi, non avevo mai notato. Esito un attimo, controllo: sì, è cattolica, sì è armena. Entro e faccio il segno della croce, per non destare sospetti (oggi all'ingresso in università, dato che c'era un gruppo raccolto a ricordare il massacro di Robosky, mi hanno chiesto per la prima volta chi fossi: vuol dire che faccio brutto).
In realtà mi sto decidendo una nuova identità, per stare comoda qui, per non rispondere sempre a domande che non mi faccio. Ma è un'identità di necessità, d'emergenza, che non mi piace, che non sono io; per questo ho nostalgia di casa, dove posso essere me stessa, senza giustificarlo sempre. In chiesa il prete dà le spalle ai fedeli, la messa è cantilenata, in armeno. Non sono nemmeno sicura se il segno della croce sia lo stesso. Ma quando esco mi sento come innaffiata da uno spirito fresco e verde, come se avessi fatto un salto a casa. Penso di essere ormai sulla strada giusta per il fondamentalismo, se l'appartenenza religiosa diventa un rifugio. Invece poi entro dai comunisti e anche qui mi sento a mio agio, mi sembra di essere al Circolone di Legnano.
Una mia amica guida la macchina anche con un dito rotto. È una matta spericolata ma guida fottutamente bene. Un giovanotto attraversa la strada mettendo in atto la solita danza della vita, alzando velocemente una chiappa dopo l'altra. Ma quando si accorge che alla guida c'è una donna, rallenta ostentatamente quasi a dire “non sarò certo io uomo a scappare da te femmina al volante”. Questo avviene nel “centro” dove abito io, a quaranta minuti da Kadıköy.

lunedì 30 dicembre 2013

Sopportate quest'ultima visione monoculare (parte 3 di 3)


Ma torniamo al nostro cristiano ad Altı Yol, che ci aspetta per finire di spiegarci come arrivare là. Il mio compagno gli chiede quanto tempo ci vuole per costruire una chiesa a Istanbul. Lui sorride di incredulità e dice che al massimo puoi fare domanda, ma magari se hai tempo puoi aspettare una quarantina d'anni. La domanda è sorta per via di una conferenza alla quale abbiamo partecipato la sera prima, a Karaköy, dal titolo “Moschee in Europa e in Turchia”, alla quale contribuivano la sociologa Nilüfer Göle e tre architetti: il turco-olandese Cihan Buğdacı, il tedesco Paul Böhm e il turco Emre Arolat. 
Sul contenuto di questa conferenza tornerò presto. Ciò che mi preme qui è riportare il lamento di Buğdacı circa il fatto che in Olanda per costruire una chiesa ci vogliano solo tre o quattro anni, mentre per una moschea bisogna aspettarne almeno venti. Non che mi prema più di tanto costruire una chiesa a Istanbul, e nemmeno penso che dovremmo misurare il comportamento dell'Europa verso le minoranze guardando al modo in cui le amministrazioni dei paesi da cui provengono trattano le loro minoranze. Ma mi sembra piuttosto normale non avere il diritto di costruire una chiesa in Turchia pari a quello che ha un turco di costruirsi la sua moschea. Non vado certo ad ammiccare ai miei connazionali in patria lasciando intendere che questi poverini non hanno il senso della democrazia e che noi deteniamo la scienza dell'Integrazione. 
Ora non lo so se il mio americano stesse ammiccando o no. Fatto sta che stavano cercando di convincermi ad andare in chiesa. E io ci sarei anche andata volentieri, almeno per curiosità. Il giorno dopo abbiamo rincontrato parte della compagnia sul battello e devo dire che mi ha fatto un certo effetto augurare “Merry Christmas” ad alta voce in mezzo alla spazio di fronte all'attracco. Ero davvero curiosa di fare l'esperienza di vivere il Natale in una città musulmana. E qualcuno obietterà che Istanbul è una città anche cristiana ed ebraica e.
Fra i mille progetti edilizi dal gusto terribile e dall'utilità pubblica dubbia, ci sono le restaurazioni del patrimonio storico della città. Non entro nel merito della qualità della restaurazione, che richiederebbe un'osservazione un po' oculata, e non un giudizio sommario che può derivare per esempio dall'esperienza di me che gratto via il sottile strato di cemento dalle mura di Teodosio che tiene insieme le pietre, per scoprire sotto terra secca. Medrese e moschee sono incappucciate in abito da cantiere, e sul loro mantello c'è scritto “Proteggiamo il nostro patrimonio storico”. E la firma della municipalità che sponsorizza l'operazione.
Però le chiese di Karaköy languiscono tristi come vecchi cimeli inutili, e per questo mi sono stupita come invece a Yeldeğirmeni stiano ristrutturando Notre Dame du Rosaire, cattolica chiesa e monastero e scuola.
In città non si sentono campanili suonare, è l'ezan delle sei a svegliarmi. Forse è abbastanza per dire che Istanbul è una città musulmana. Forse per questo i nostri auguri in piazza mi sono sembrati quasi una dichiarazione di identità. E ho capito come diventa facile all'estero identificarsi con qualcosa di forte come la religione. Io che in patria non partecipo alla vita che gira intorno alla parrocchia, qui mi viene quasi la tentazione di adottare l'azione di andare alla messa di Natale come statement. Mi trattengo, infine, sia la sera della Vigilia che la mattina del 25; la vince la stanchezza della settimana di giri matti con il mio fidanzato camminatore. Ma io, che qui sono un puntolino semi-invisibile, so che mi sentirei meno impotente se superassi il livello del mio essere cristiana semplicemente per formazione, per cultura e accedessi a quello dell'identificazione piena e affermativa. Per fortuna sono un'antropologa e non cado in tentazione.